Yvette Hatwell – La lettura tattile

LA LETTURA TATTILE DI CARTINE

E DISEGNI IN RILIEVO DA PARTE DEI CIECHI

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I segni grafici di cui si compone la rappresentazione scritta del linguaggio orale sono caratterizzati dal fatto che, perlomeno oggigiorno, sono segni arbitrari, senza alcuna somiglianza fisica con la parola a cui si riferiscono. Tuttavia esistono altre forme di comunicazione grafica, basate invece sui “simboli”, ovvero su immagini e figure nelle quali, di conseguenza, viene mantenuta una certa somiglianza tra la rappresentazione grafica e l’oggetto reale rappresentato. Si tratta dei disegni contenuti nelle cartine illustrative, le quali schematizzano la configurazione di uno spazio esterno e la posizione degli oggetti all’interno di esso, nonché dei contorni degli oggetti e degli scenari che, con una semplificazione più o meno evidente, riproducono alcune delle proprietà spaziali e fisiche degli oggetti Per molto tempo, e anche dopo la generale diffusione della scrittura Braille per i ciechi, i libri in Braille erano sprovvisti di cartine in quanto, fino all’inizio degli anni 60, non esistevano materiali semplici e a basso prezzo per produrre linee e superfici in rilievo. Ciò rendeva i libri poco attraenti, soprattutto per i giovani.

Inoltre i bambini non avevano neanche la possibilità di disegnare, non potendo controllare attraverso la vista la traccia lasciata su un foglio da una normale matita. La situazione è cambiata quando, negli anni 60, sono apparsi sul mercato, a prezzi abbordabili, alcuni dispositivi che permettevano di tracciare un tratto in rilievo punteggiato spostando una penna a sfera su un foglio speciale posto su un supporto di plastica flessibile (materiale proposto dalla Swedish Foundation for the Blind).

Oggi, inoltre, alcune macchine permettono di stampare disegni in rilievo leggibili attraverso il tatto (più precisamente linee o superfici in rilievo ottenute attraverso la termoformatura), che resistono all’uso e di cui è possibile modificare i parametri (altezza del rilievo, larghezza del tratto, tessitura delle superfici, ecc). Questo progresso tecnico chiarisce il motivo per cui, da una ventina di anni, nei libri e nel materiale didattico per ciechi sono state introdotte illustrazioni tattili, cartine, disegni e diagrammi in rilievo.

Per un lungo arco di tempo i tentativi di rendere il disegno accessibile anche ai ciechi sono stati sporadici, anche perché questa sembrava essere un’attività puramente visiva. In effetti, trattandosi di una rappresentazione bidimensionale di una realtà esterna tridimensionale, il disegno risponde necessariamente alle leggi delle proiezioni spaziali. Ora, queste proiezioni, molto familiari ai vedenti in quanto legate alla percezione visiva del mondo, sono completamente sconosciute ai ciechi nati. Infatti il tatto non è un canale che consente la percezione a distanza, ma è sensibile unicamente al contatto diretto con un oggetto, e ignora le deformazioni apparenti dovute alla prospettiva. Al tatto, gli angoli del quadrato che costituisce la faccia di un cubo sono sempre percepiti come angoli retti, qualunque sia l’orientamento spaziale del cubo; allo stesso modo, un cerchio non appare mai come un’ellissi, neanche quando si trova su un piano inclinato. Come spiegare allora a chi non ha avuto nessuna esperienza visiva che la rappresentazione grafica piana di un oggetto tridimensionale introduce necessariamente delle deformazioni apparenti dello stesso dovute alla prospettiva? Più in generale, il tatto è adatto al simbolismo proprio del disegno?

Questi problemi di diversa natura verranno discussi qui di seguito alla luce delle ricerche di psicologia sperimentale realizzate in questi ultimi anni e riassunte da Hatwell e Martinez-Sarocchi (2000). Innanzitutto esamineremo i lavori relativi all’utilizzo delle cartine in rilievo da parte di bambini e adulti ciechi, poi vedremo in che misura i disegni di oggetti possono essere prodotti e/o identificati dagli Le cartine sono delle rappresentazioni simboliche bidimensionali che proiettano, su scala ridotta, uno spazio reale, dando una visione d’insieme di spazi vasti (una città) o ristretti (una classe). Questa modalità di archiviazione dell’informazione geografica, vecchia di più di seimila anni, è interessante perché rende percepibile ciò che di per sé non lo sarebbe. Le mappe hanno le stesse proprietà delle cartine, ma sono tridimensionali e quindi rappresentano lo spazio per piccoli volumi.

Processi generali di trattamento

Le cartine contengono dei dati spaziali che permettono di localizzare gli oggetti (strade, palazzi), stimare distanze e direzioni, e quindi costruire un percorso da un punto ad un altro. Ma queste informazioni sono accessibili solo se l’osservatore ha acquisito certe competenze percettive e cognitive che gli consentano di decodificare i simboli presenti nelle cartine. Gli adulti vedenti con un certo livello di istruzione sono generalmente in grado di utilizzare le cartine stradali e geografiche; dall’età di 5 anni, i bambini vedenti sanno a cosa serve una carta. Dal punto di vista della percezione, bisogna innanzitutto distinguere i tratti dai simboli, e capire l’organizzazione spaziale della carta. L’adattamento delle cartine alle capacità percettive dei soggetti conferma l’importanza delle ricerche cartografiche miranti ad individuare i fattori che ne favoriscono la leggibilità: grado di semplificazione, scala di grandezza, spessore dei tratti, qualità della stampa dei simboli, ecc. Sul piano cognitivo invece la lettura delle cartine pone numerosi problemi, primo fra tutti quello di acquisire la consapevolezza che una rappresentazione bidimensionale in piccolo riproduce un grande spazio esterno tridimensionale. Inoltre, la cartina è una rappresentazione dello spazio, la quale, a sua volta è situata anch’essa nello spazio, in quanto è un oggetto materiale con una sua forma intrinseca. Ma quest’oggetto tuttavia rappresenta (“sta in luogo di”) un altro spazio, e con tale referente condivide una geometria estrinseca mediante una relazione di corrispondenza prospettica. Utilizzare una carta significa quindi tenere conto delle sue proprietà materiali e, al tempo stesso, decodificare ciò che essa simboleggia. Inoltre, per leggere una carta, bisogna situarsi nello spazio della carta stessa. Si ritiene che quelle piantine che recano l’indicazione “Voi siete qui” agevolino questa operazione, ma non è sempre vero. È vero soltanto se l’orientamento della carta è, come si dice, “allineato”, cioè se l’alto della carta corrisponde alla direzione “lontano”, rispetto all’osservatore.

Le cartine “controallineate” (rotazione di 180°) o “non allineate” (altre rotazioni) impongono di cambiare il punto di vista e danno luogo ad errori legati alla difficoltà di specularizzazione, oppure dovuti a difficoltà di concettualizzare la rotazione (Levine, Jankovic & Palij, 1982; Rossano & Warren, 1989a).

Dopo aver trovato la propria posizione, l’osservatore deve localizzare la meta da raggiungere, estrapolare l’informazione relativa alle varie direzioni, le distanze e i punti di riferimento, e tenere a mente queste informazioni. Tutto ciò richiede solide competenze e l’attivazione di un sistema di riferimenti stabili basati su indizi esterni. Quest’analisi del bagaglio di conoscenze che presuppone la corretta lettura delle cartine spiega perché è soltanto verso gli 8-9 anni che i bambini vedenti acquisiscono questa abilità (Piaget & Inhelder, 1947). È infatti verso quest’età che diventa generalmente possibile l’uso delle cartine, ma studi recenti dimostrano che dei bambini più piccoli (5-6 anni) possono già servirsi di una carta se essa è molto semplificata, contiene riferimenti spaziali ben visibili ed è allineata. Ma a quest’età si osservano alcuni errori caratteristici: cambiamento di scala (dopo aver riconosciuto un edificio visto dall’alto, rappresentato su una cartina, il bambino identifica un prato con un formaggino), reificazione dei simboli (una strada disegnata in rosso sulla carta deve essere rossa anche nella realtà) (Down & Liben, 1987; Liben & Down, 1989), ecc.

Secondo Bluestein e Acredolo (1979), Blades e Spencer (1987), i vedenti di 4-5 anni riescono a localizzare la loro posizione su una carta semplice e allineata, che rappresenti uno spazio di piccole dimensioni (ad esempio l’aula). Se invece si fa uso di plastici tridimensionali, è tra i 3 e i 4 anni che i bambini riescono a ritrovare un oggetto nascosto in uno spazio reale, dopo aver preso coscienza della sua posizione sulla mappa che lo rappresenta.

L’uso delle cartine tattili da parte dei ciechi

La qualità della nostra vita dipende in gran parte dalla possibilità di assumere decisioni che riguardano lo spazio, e che ci consentono di spostarci da un punto all’altro. Ma la cecità assoluta riduce sensibilmente l’autonomia nei movimenti, e, se questa non viene in qualche modo ricuperata, fa dei ciechi delle persone assistite che dipendono da chi le circonda per svolgere le attività della vita quotidiana.

Ricordiamo che, come ha sottolineato Foulke (1982), la mobilità nello spazio non consiste in spostamenti casuali, bensì in movimenti orientati che devono consentire di evitare gli ostacoli e di arrivare ad una meta prestabilita. Questi movimenti, da realizzarsi ad una velocità ragionevole, devono garantire allo stesso tempo sicurezza e facilità di esecuzione.

L’udito fornisce alcune informazioni sullo spazio lontano dal corpo, ma si tratta di informazioni parziali (non tutti gli oggetti emettono un suono), e spesso poco precise. Quanto al tatto, questo infatti non consente una percezione a distanza, e quindi non permette di pianificare il percorso in funzione della percezione degli ostacoli lontani. Dunque è molto importante sapere se, fornendo una visione d’insieme dello spazio non percepibile da chi non vede, le cartine tattili possono aiutare questi soggetti ad acquisire autonomia nella mobilità o almeno ad acquisire una maggiore consapevolezza degli aspetti spaziali relativi all’ambiente circostante.

Sul piano puramente percettivo, l’uso delle cartine da parte dei ciechi pone una serie di problemi specifici. Il tatto è poco adatto alla bidimensionalità (2d), mentre si comporta molto meglio quando si tratta di discriminare o di identificare oggetti volumetrici tridimensionali (3d). Inoltre, a causa delle sue specifiche modalità di funzionamento, alcuni errori sono tipici della percezione che avviene tramite esplorazione manuale. Ad esempio, la distanza euclidea (il percorso più breve) tra due punti viene sovrastimata quando il braccio e la mano, nel compiere il percorso da un punto di partenza ad un punto di arrivo, effettuano una rotazione, come se ad essere codificato fosse non la distanza effettiva tra i due punti, ma la lunghezza del percorso effettuato dalla mano (Lederman, Klatzky e Barber, 1985; Gentaz e Hatwell, 2000). Inoltre, alcune illusioni percettive possono distorcere le informazioni tattili fornite da una cartina in rilievo, come accade a volte con le cartine visive (Gillan, Schmidt & Hanowski, 1999).

Affinché le cartine tattili siano leggibili, esse devono essere rappresentazioni molto parziali e semplificate dello spazio (una cartina troppo ricca è incomprensibile anche per i vedenti), ma non devono essere comunque tralasciate le informazioni utili. Alcuni studi cartografici (ad esempio Horsfall, 1997) hanno preso in esame quali sono gli aspetti grafici e quelli legati alla codificazione, che meglio corrispondono alle caratteristiche tipiche del tatto: tipo di linee per rappresentare una strada, natura delle intersezioni e dei simboli, distanza tra i simboli, numero e tipo di tessiture in sostituzione dei colori, grandezza della carta, tipo di supporto (carta Braille o rilievo modellato su supporto plastificato), ecc. Nei bambini, i problemi sono ancora più seri che negli adulti, a causa della scarsa efficienza del loro sistema tattilo-cinestetico. Siccome, per essere leggibili al tatto, le cartine devono essere molto semplificate e devono contenere un numero relativo di informazioni, è consigliabile proporre diverse cartine relative ad una medesima area da rappresentare, ciascuna delle quali rappresenti un aspetto particolare: per una regione ad esempio, carta delle coste, carta delle città, carta delle risorse economiche, ecc. Per quanto riguarda le cartine destinate specificamente a favorire l’autonomia negli spostamenti dei ciechi, è stato dimostrato che le migliori prestazioni sono ottenute con le cartine realizzate con cordoncino o nastro (come quelle che descrivono, ad esempio, il percorso di una certa linea di autobus o metropolitana), costruite in maniera tale da fornire indicazioni utili allo spostamento quotidiano dei ciechi: tipi di terreno, piste ciclabili, negozi, alberi e vegetazione, luci, suoni e odori specifici, ecc. (Golledge, 1991; Luxton, Banai & Kuperman, 1994).

La Landau (1986; 1991) ha seguito longitudinalmente lo sviluppo di una bambina cieca dalla nascita di nome Kelli, tra i 2 e i 5 anni di età, ed è giunta alla conclusione che la capacità di leggere e di orientarsi su una cartina tattile è innata perché, fin dall’età di 4 anni e senza apprendimento preliminare, Kelli è stata in grado di utilizzare una carta per localizzare un oggetto. Va però precisato che si tratta di un caso eccezionale: altri studi mostrano che, analogamente a quanto si verifica presso i vedenti, questa capacità non è innata nei ciechi; è necessario invece un periodo di apprendimento affinché il bambino comprenda che i movimenti delle sue mani che esplorano la cartina forniscono informazioni circa i movimenti reali da effettuarsi nello spazio (Millar, 1994). Inoltre Rossano e Warren (1989b) studiando alcuni casi di adulti ipovedenti o ciechi assoluti precoci, hanno osservato difficoltà simili a quelle che incontrano i vedenti in presenza di cartine controallineate o non allineate.

Utilizzando una cartina di uno spazio ristretto, visto dall’alto, Ungar, Blades e Spencer (1996) hanno scoperto che la maggioranza dei ciechi assoluti precoci e degli ipovedenti di 6-8 anni riesce a localizzare la propria posizione su una cartina semplice. In questa ricerca il bambino veniva posizionato all’interno di uno spazio quadrato, composto da 5 file di 5 quadrati ciascuna, a distanza di 30 cm l’uno dall’altro. Su 16 di questi quadrati era scritta una lettera in Braille (o in nero per gli ipovedenti), mentre gli altri non erano identificabili. Tutti i quadrati erano rivolti verso il pavimento, in modo che l’eventuale lettera scritta non risultasse visibile.

Innanzitutto il bambino esaminava una cartina che indicava la posizione nello spazio di tutti i quadrati, segnati e non. Poi effettuava con lo sperimentatore un percorso lungo una fila di quadrati. Ogni volta che incontrava un quadrato, il bambino doveva rovesciarlo, e quindi indicarne la posizione sulla carta. Alla fine della prova, il bambino tracciava nuovamente sulla cartina il suo percorso completo. I risultati hanno mostrato un’elevata percentuale di successo dell’esperimento, sia per quanto riguarda la localizzazione (75%), sia per quanto riguarda la ricostruzione di tutto il percorso (81%), in particolar modo nel caso in cui i tracciati erano ricchi di segni di riferimento.

Ungar, Blades e Spencer (1997) hanno anche studiato la capacità di stimare la distanza tra due oggetti in una terna (posizionati in un corridoio) a partire dalla loro rappresentazione su una cartina allineata. La percentuale di errore di posizionamento nello spazio reale è stata molto più elevata nel caso dei ciechi di 5-8 anni (69%) che tra quelli di 8-11 anni (33,5%). Infatti i bambini più piccoli non hanno assolutamente saputo operare il cambiamento di scala per passare dalla cartina allo spazio reale. Inoltre, le prestazioni dei ciechi sono risultate inferiori a quelle dei loro coetanei vedenti, soprattutto tra i più piccoli: tra i vedenti, in situazione di non visione, gli errori sono stati del 46% a 5-8 anni, e del 26% a 8-11 anni. In un altro esperimento effettuato dagli stessi autori, prima della prova sono state fornite alcune spiegazioni: in particolare, ai più piccoli è stato suggerito di confrontare le misure delle distanze tra i 3 oggetti rappresentati sulla cartina, e di riportare successivamente questi confronti nello spazio reale, mentre ai più grandi è stato spiegato il concetto di frazione. In questo modo è stato registrato un certo miglioramento delle prestazioni in entrambi i gruppi.

Anche la capacità di valutare la direzione è stata fatta oggetto di studio da parte di Ungar, Blades, Spencer e Morsley (1994). Sei scatole, ognuna delle quali nascondeva un oggetto, erano disposte in maniera casuale in una stanza. Partendo dal centro di questa, il bambino era accompagnato verso uno degli oggetti nascosti, poi nuovamente al centro. Così si procedeva per tutti gli oggetti nascosti. Poi, sempre partendo dal centro, il bambino doveva orientare un puntatore in direzione degli oggetti nominati dallo sperimentatore. In un altro esperimento, il soggetto doveva restare fermo al centro della stanza, gli veniva consegnata una cartina allineata che rappresentava la disposizione generale della stanza stessa, e degli oggetti nascosti. Quindi doveva orientare il puntatore verso i singoli oggetti. Le prestazioni dei ciechi assoluti nati di 8-12 anni sono state nettamente superiori relativamente alla esplorazione reale. I ciechi di 5-8 anni hanno fatto registrare risultati saltuari in entrambe le circostanze, a conferma del fatto che solo a partire dagli 8 anni i bambini diventano veramente capaci di utilizzare una cartina in maniera efficace. In un gruppo di adulti (cecità assoluta sopravvenuta tra la nascita e i 6 anni di età) Espinosa e Ochaita (1998) hanno anche osservato che un percorso nuovo all’interno di una città viene acquisito meglio se si effettua con l’aiuto di una cartina, piuttosto che a partire dall’esplorazione reale.

A partire dall’età scolare, le cartine tattili possono dunque migliorare la rappresentazione dello spazio presso i ciechi assoluti, a condizione che si tratti di cartine allineate. In effetti, i ciechi precoci hanno ottenuto prestazioni inferiori rispetto ai vedenti per quanto attiene alle rotazioni mentali, cioè la capacità di rappresentarsi gli effetti della rotazione di un oggetto nello spazio (Carpenter & Eisenberg, 1978; Ungar, Blades & Spencer, 1995). Ciò dà ragione delle difficoltà dei ciechi, legate al non allineamento delle cartine (Rossano & Warren, 1989 b). La necessità dell’allineamento, soprattutto per i bambini più piccoli, indica alcuni limiti della rappresentazione spaziale tattile e indica l’opportunità che questa si basi, almeno nel loro caso, sull’apprendimento di una serie di riferimenti locali, più che su una vera e propria mappa cognitiva globale. È altrettanto vero che le cartine in rilievo possono essere utilizzate abbastanza presto nel percorso scolastico dei bambini e, purché queste siano oggetto di un apprendimento adeguato, possono facilitare la comprensione dello spazio circostante, e quindi la mobilità dei bambini Mentre le cartine trasmettono solo l’informazione spaziale (dove?), i disegni rappresentano anche il “cosa?”, cioè alcune proprietà degli oggetti (forma, colore, tessitura, ecc). Queste rappresentazioni in proiezione, che “somigliano” più delle cartine agli oggetti reali, vengono identificate dai vedenti a partire dal secondo anno di età. La produzione dei disegni invece è laboriosa, perché trova i suoi limiti nella immaturità dei movimenti del bambino, nella natura delle sue rappresentazioni mentali e nella difficoltà legata alla rappresentazione in proiezione dello spazio tridimensionale, che peraltro solo pochi adulti riescono a superare.

Una volta risolti i problemi tecnici legati alla produzione di linee in rilievo, resta da chiarire se queste rappresentazioni bidimensionali possano essere utilizzate dai ciechi. In effetti, queste somigliano molto meno agli oggetti reali, per come si presentano al tatto, di quanto i disegni colorati “tradizionali” non somiglino agli oggetti, come vengono percepiti dalla vista.

I disegni di oggetti di uso comune prodotti dai ciechi

Consideriamo in primo luogo la produzione di disegni. Kennedy e i suoi associati (Kennedy, 1993 e 1997; Kennedy, Gabias & Nicholls, 1991) hanno condotto un lavoro di ricerca degno di nota, che dimostra in maniera sorprendente la capacità dei ciechi nati di produrre disegni in rilievo. Secondo Kennedy, certe regole della rappresentazione grafica, come il mascheramento e la raffigurazione dei contorni, piuttosto che delle superfici di un oggetto (ad esempio la rappresentazione di una testa umana mediante un cerchio), sono universali in quanto sono state applicate spontaneamente nei disegni prodotti da alcuni ciechi nati. Spesso i ciechi di 5-6 anni disegnano gli stessi scarabocchi dei vedenti di 3 anni. Queste interessanti osservazioni tuttavia sembrano riferirsi soltanto ad alcuni casi individuali specifici, mentre la produzione di disegni rimane difficile per la grande maggioranza dei ciechi.

Sul piano percettivo, il controllo tattile dell’esecuzione del disegno in corso d’opera risulta molto più precario del controllo visivo dei vedenti, a causa della limitatezza del campo percettivo tattile, della sequenzialità tipica dell’approccio tattile, e della difficoltà di percepire i movimenti della mano sinistra che segue le linee, mentre la mano destra agisce (questo per i destrimani). Per altro verso, e soprattutto, è importante sottolineare che la maggior parte dei ciechi ignora le “regole di trascrizione” dello spazio tridimensionale nello spazio bidimensionale (Millar, 1975), ovvero i codici e le convenzioni che permettono di rappresentare la terza dimensione nello spazio piano del foglio di carta. Per questo fra i ciechi nati spesso si osservano alcune caratteristiche tipiche: rappresentazione di tutte le facce dell’oggetto (ad esempio un cubo disteso), riempimento delle superfici, errori di orientamento, ecc. Generalmente i ciechi assoluti, soprattutto quelli precoci, non producono spontaneamente disegni in rilievo raffiguranti oggetti o scene. Lo fanno solo se sono sollecitati, ad esempio in ambito scolastico.

L’identificazione di disegni di oggetti comuni (chiave, banana, ombrello, ecc.) è stata oggetto di ricerche sperimentali più numerose. Contrariamente a quanto avviene nel caso della vista, dove il riconoscimento precede di molto la capacità di produrre disegni, nel caso del tatto è stato osservato l’inverso (Millar, 1991): qui l’identificazione dei disegni è molto difficile. Così, Magee e Kennedy (1980) hanno osservato solo il 12% di successo tra gli adulti ciechi precoci, mentre peraltro i vedenti in situazione di non visione hanno fatto registrare risultati appena migliori (solo il 30% di riuscita, secondo Kennedy e Fox, 1977). Queste prestazioni mediocri sono dovute, almeno in parte, all’esiguità del campo percettivo tattile, come è stato dimostrato da Loomis, Klatzky e Lederman (1991).

Heller (1989) ha studiato il ruolo giocato dall’esperienza visiva precedente. Innanzitutto ha constatato che i suoi tre gruppi di adulti (ciechi nati, ciechi tardivi e vedenti in situazione di non visione) hanno fatto registrare le stesse percentuali di successo in una prova di riconoscimento di forme geometriche in rilievo. Poi ha chiesto loro di identificare dei disegni (con i contorni in rilievo) di oggetti familiari. Qui ha osservato una superiorità molto netta da parte dei ciechi tardivi sugli altri due gruppi, che hanno avuto lo stesso rendimento. I ciechi tardivi infatti beneficiano della loro esperienza visiva precedente, che ha permesso loro di accedere ai codici grafici, e, allo stesso tempo, del senso del tatto, molto poco allenato nei vedenti.

Tra l’altro, Pathak e Pring (1989) hanno mostrato che, anche quando riescono a distinguerli e a riconoscerli tra 3 disegni, i ciechi precoci hanno difficoltà a conservare questi disegni nella memoria di lavoro. Infatti le prestazioni di questi ragazzi, di 13 anni di età, si sono rivelate inferiori rispetto a quelle dei vedenti in situazione di non visione, allorché, dopo aver preso coscienza di 3 disegni, dovevano indicare a memoria quale dei 3 corrispondesse alla parola detta dallo sperimentatore (il ragazzo indicava se la parola corrispondeva al primo, al secondo o al terzo disegno presentato). Nella situazione inversa (in cui veniva proposto un solo disegno e i ragazzi dovevano scegliere, tra tre parole, quella ad esso corrispondente), il rendimento dei ciechi precoci non è risultato statisticamente diverso da quello dei vedenti. Dunque si osserva che, per i ciechi precoci, il trattamento dei disegni in rilievo costituisce un carico cognitivo tanto oneroso da influire negativamente sulla loro capacità di conservare i dati nella memoria.

Un altro fattore che dà ragione delle difficoltà nell’identificazione tattile dei disegni deriva dal fatto che, essendo questi fisicamente poco somiglianti all’oggetto reale, il disegno in rilievo mal si presta a specificare la categoria di appartenenza dell’oggetto in questione, lasciando aperto un vasto campo di possibilità. Per contro, indicando in anticipo la categoria di appartenenza dell’oggetto (frutta, mobili, veicoli, ecc), Heller, Calcaterra, Tyler e Burson (1996) hanno ottenuto da un gruppo di adulti vedenti in situazione di non visione il 63% di risposte corrette, mentre, senza questa informazione, solo il 25% delle risposte erano esatte. Nelle medesime condizioni di partenza, (indicazione della categoria di appartenenza), i ciechi tardivi mostrano un rendimento simile a quello dei vedenti (70%), mentre i ciechi precoci hanno fatto registrare punteggi pari al 37%. Risulta quindi confermata la difficoltà derivante dalla cecità precoce nell’interpretazione dei disegni, nonostante l’aiuto proveniente dall’indicazione della categoria.

Per altro verso Pring e Rusted (1985) hanno scoperto che sia i ciechi precoci che i ciechi tardivi (di 14 anni) traggono beneficio dalle illustrazioni che accompagnano un testo. Infatti, i brani illustrati (in rilievo termoformato) di un testo che il soggetto può leggere in autonomia sono stati memorizzati meglio degli altri. Va precisato che gli autori non hanno considerato la durata della presentazione dei vari brani, che è necessariamente più lunga nel caso di brani illustrati. Infine i ciechi tardivi hanno tratto beneficio dalle illustrazioni più dei ciechi precoci.

La rappresentazione grafica della prospettiva

I ciechi precoci hanno difficoltà a rappresentarsi i cambiamenti spaziali del punto di vista (Gentaz & Hatwell, 2000; Hollins & Kelley, 1988; Miletic, 1995). È possibile per loro, c’è da chiedersi, produrre e comprendere disegni che rappresentano punti di vista diversi di uno o più oggetti? Per gli adulti, e con un compito molto semplice, Heller (1990) risponde in modo affermativo. In una ricerca l’autore ha presentato ad un gruppo di adulti ciechi precoci e tardivi tre oggetti (un cubo, una sfera e un cono), sistemati su un’assicella in modo da formare un triangolo. Dopo averli esplorati, il soggetto doveva disegnarli visti dall’alto (vista perpendicolare) e visto da un lato (vista laterale). Poi doveva riconoscere un disegno, anch’esso visto dall’alto o da un lato. In tutte le situazioni, le prestazioni non possono essere considerate casuali, e la condizione visiva dei soggetti non ha influito sul risultato. Ma, qualche anno dopo, Heller, Kennedy e Joyner (1995) hanno scoperto che i ciechi precoci hanno prestazioni inferiori rispetto ai ciechi tardivi e ai vedenti in situazione di non visione, in una prova in cui veniva richiesto di indicare la posizione in cui si doveva trovare l’osservatore per avere un certo punto di vista su una casa disegnata (vista dall’alto, da 3⁄4 e da un lato).

Per studiare in maniera più approfondita la rappresentazione della prospettiva da parte dei ciechi, Heller, Kennedy e Joyner (1995) hanno presentato ad un gruppo di adulti ciechi precoci e tardivi (cecità sopravvenuta dopo il primo anno di età) un pannello rettangolare verticale che poteva ruotare sul suo asse orizzontale Dopo aver esplorato e disegnato il pannello fissato a 90°, i soggetti esplorano lo stesso pannello inclinato e orientato in diversi modi, e lo disegnano per come apparirebbe a un vedente seduto al loro posto. In questo studio si è molto insistito affinché i ciechi rappresentassero bene gli angoli del pannello. Come ci si poteva aspettare, molti ciechi precoci non hanno compreso la consegna, per cui hanno disegnato sempre un rettangolo, qualunque fosse l’inclinazione del pannello.

I ciechi tardivi e i vedenti, invece, hanno applicato (più o meno bene) le leggi della prospettiva. Ma quando, invece di riprodurre un disegno, i soggetti dovevano riconoscere tra molti il disegno del pannello inclinato, i ciechi precoci hanno sensibilmente migliorato le loro prestazioni, giungendo a conseguire gli stessi risultati dei ciechi tardivi e dei vedenti.

I ciechi precoci quindi sono in grado di comprendere, in situazioni molto semplificate, alcune rappresentazioni grafiche della prospettiva. Ma appena il disegno raggiunge una certa complessità, appaiono in notevole difficoltà. Ecco perché, se si vuol comunicare ai ciechi alcune conoscenze su oggetti e macchine tridimensionali, sarà opportuno rappresentarli utilizzando diverse “proiezioni ortogonali”, cioè frontale, “facce”, o in sezione tagli “a fette”), (analogamente a quel che si fa operando con uno scanner che esplora il cervello), anziché in prospettiva (Bris & Morice, 1996).

I materiali didattici concepiti e realizzati per i ciechi dal Servizio Accessibilità della Città delle Scienze e dell’Industria della Villette, a Parigi, sono basati su questo principio e presentano, per proiezioni ortogonali delle diverse facce dell’oggetto, schemi di architettura (l’Arco di Trionfo), di biologia (il corpo umano) ecc.

Dall’insieme di questi studi appare chiaro che alcune difficoltà specifiche ostacolano l’utilizzo delle cartine e dei disegni in rilievo da parte dei ciechi, soprattutto di quelli precoci, e al tempo stesso che questa è comunque non solo possibile, ma e anche fruttuosa. Questa risulterà tanto più efficace quanto più i ciechi avranno sfruttato un apprendimento e un allenamento sistematico in questo ambito. Così è stato visto che, a partire da una certa età e in ogni caso tra gli adulti, la rappresentazione spaziale e la mobilità sono sensibilmente migliorate dalla presentazione di cartine in rilievo. Quanto ai disegni di oggetti, questi risultano spesso di difficile accesso per i ciechi precoci, mentre i ciechi tardivi vi ritrovano più facilmente alcuni elementi della loro rappresentazione visiva precedente.

Dato che la rappresentazione del reale attraverso il disegno è sempre faticosa per i ciechi, è raro che questi se ne servano spontaneamente. Comunque, in alcuni ciechi, sono state riscontrate alcune reazioni sistematiche di resistenza a tutto ciò che viene qualificato come “la colonizzazione del visivo”, come sottolinea Michel Bris in alcuni documenti forniti dal Centro Nazionale di Studio e Formazione dell’Infanzia Disadattata, con sede a Suresnes, e destinati alla formazione dei maestri specializzati nella disabilità visiva.

Però, oltre al beneficio sul piano cognitivo diretto che possono fornire (miglioramento delle conoscenze spaziali e della rappresentazione degli oggetti circostanti), è possibile che queste illustrazioni rendano ai ciechi un servizio più globale dal punto di vista del loro inserimento nell’ambiente familiare, scolastico e sociale. Con libri e materiali didattici illustrati, le famiglie dei bambini ciechi sono meno disorientate rispetto al caso in cui vengono utilizzati soltanto libri in Braille senza illustrazioni e i bambini stessi sembrano meno emarginati all’interno della loro classe perché appaiono più simili ai loro coetanei vedenti. A questo punto rimane solo da sperare che, in futuro, nuovi progressi tecnici migliorino ancora la produzione delle cartine e dei disegni in rilievo per renderli più leggibili e per facilitarne la diffusione, oggi ancora abbastanza limitata.

Riferimenti bibliografici

Blades, M., & Spencer, C. (1987). The use of maps by 4-6-year-old children in a large scale maze. British Journal of Developmental Psychology, 5, 19-24.

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Yvette Hawell
Laboratoire de Psychologie et NeuroCognition
Université Pierre Mendes France, Grenoble

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